L’intenzione del ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli di voler favorire il “reshoring” per riportare in Italia la produzione di imprese che in questi anni hanno delocalizzato la propria attività all’estero è probabilmente positiva. Ma potrà funzionare? Quella possibile manovra, riassunta in un solo sostantivo inglese che indica un possibile controesodo dell’economia italiana e che il Governo pensa di far partire attraverso l’introduzione di agevolazioni, di riduzioni dei costi sopportati dalle imprese nazionali che perdono competitività proprio in ragione di un costo del lavoro insostenibile sui mercati internazionali, di un pesantissimo carico fiscale, di una macchina burocratica che ogni giorno “divora” milioni di euro, potrà davvero riportare nel Belpaese una fetta di “Made in Italy” fuggita perché spaventata da come viene guidato il Paese e, con essa, investimenti e posti di lavoro? L’idea non è male, ma occorrerà verificarne in sede comunitaria la compatibilità con gli orientamenti europei e in ogni caso dall’annuncio alla reale applicazione trascorrerà del tempo. Probabilmente molto. Tempo di cui l’Italia non dispone, perché nel frattempo “la casa brucia” e continuerà a essere divorata dalle fiamme della crisi. Il giornalista Dario Di Vico, del Corriere della Sera, autore di un articolo dedicato alla possibilità che l’Italia attui davvero una manovra per far rientrare le imprese “fuggite” oltre frontiera, si pone la domanda se un’iniziativa di tale natura sia sufficiente per recuperare il gap esistente tra le imprese che hanno mantenuto la sede in Italia e quelle che invece l’ hanno trasferita all’estero. In particolare il giornalista pone come esiziale la questione infrastrutturale, che se può essere poco rilevante per determinare il costo per unità di prodotto (legato ovviamente al valore della merce) lo è certamente per la competitività. Perché la capacità di penetrazione in un mercato è data dalla gestione della filiera e perché l’elemento portante è il fattore tempo. Limitando l’analisi della situazione proprio al settore trasporto, l’accento va innanzitutto messo sul costo del lavoro, del personale conducente. Costo che esce letteralmente a pezzi dal raffronto con quello di alcuni Paesi nostri competitori che oggi hanno conquistato una rilevante quota nel trasporto internazionale, con la forbice che oscilla tra i 43 centesimi di euro al chilometro per Italia contro gli appena 11 centesimi della Bulgaria. Moltiplicando il valore differenziale per 120mila chilometri (la media di quelli percorsi in un anno da un tir ma che possono essere anche di più) arriviamo a oltre 38mila euro l’anno. Poi ci sarebbe il costo del gasolio che, pur se mitigato dagli interventi che la categoria è riuscita a ottenere dal Governo, è sempre fra i più elevati (solo l’Inghilterra ci supera…) a livello europeo. Senza addentrarsi in altre voci, limitandosi solo ad aggiungere la scarsissima funzionalità delle nostre infrastrutture che rallenta la velocità commerciale, risulta facile scoprire come l’intervento di “reshoring” annunciato dal ministro Stefano Patuanelli per funzionare dovrebbe pesare significativamente sui costi dello Stato, andando per di più a scontrarsi frontalmente con i principi di una componente della maggioranza di governo completamente ostile a potenziare le infrastrutture. Tutto quanto detto fin qui può essere riassunto con una semplice considerazione: non é certo un caso che anche nell’import-export il nostro Paese stia sempre più registrando dati negativi. Gli ultimi diffusi attestano un’economia in fase di stagnazione, se non di recessione. E qui il tema delle Alpi e il loro attraversamento si innesca con grande impatto: le limitazioni imposte dall’Austria al Brennero, valico dal quale transita un quarto di tutto l’import export italiano, stanno penalizzando l’intera economia nazionale, non solo i trasporti su strada. È sufficiente un dato a testimoniarlo: ogni ora di ritardo maturata su quel percorso “produce” un costo annuo di 370 milioni di euro? Di cui 170 “pagati” dal trasporto e 200 dal sistema produttivo. Ma quale “reshoring” ci vorrebbe per allineare le condizioni di competitività in un’economia basata sui flussi? Invece d’immaginare ipotesi tanto per dimostrare che si fa qualcosa, non sarebbe invece importante occuparsi di cose più concrete, come per esempio risolvere, con gli organi comunitari competenti, il problema dell’attraversamento delle Alpi? Nel 2000 venne firmato dal ministro dei Trasporti italiano il protocollo trasporti, parte della Convenzione delle Alpi: chi allora si opponeva venne considerato un avversario di chi era al governo del Paese. Forse invece era qualcuno capace di vedere lontano. Oggi l’intero Paese ne paga le conseguenze. E continuerà a farlo se non si agirà sulle condizioni che mettono al medesimo livello la nostra economia con quelle dei Paesi competitori. Altro che “reshoring”: meglio sarebbe aprire un confronto europeo sull’applicazione reale del principio che garantisce ai componenti la libera circolazione delle merci. Oggi non è così! Senza questo atout il Paese non riuscirà a competere.
Paolo Uggé, vicepresidente di Conftrasportoe Confcommercio