Il nuovo asse ferroviario Torino-Lione è parte della rete centrale delle infrastrutture Europee TEN T, definita dal coordinatore europeo “sezione chiave” dell’intero corridoio Mediterraneo, lungo circa 3.000 chilometri, che collegherà il Mediterraneo occidentale con l’Europa centrale. Un corridoio di grande importanza strategica destinato a servire il 20 per cento circa della popolazione europea in regioni che rappresentano un quinto circa del Pil dell’Unione. Una via di collegamento che potrebbe essere definita un’importante tessera all’interno di un puzzle europeo che, una volta ultimato, risulterebbe assolutamente positivo per l’Italia. Per un motivo semplicissimo: perché la nuova rete ferroviaria è nata con l’obiettivo di eliminare i colli di bottiglia del sistema dei trasporti e della logistica del vecchio continente, quali quelli presenti lungo la barriera alpina che penalizzano profondamente proprio il nostro Paese. Collo di bottiglia non è un termine usato a caso: è esattamente quello scelto dall’Unione europea per definire la linea ferroviaria storica, risalente ai tempi di Camillo Benso conte di Cavour, per denunciare le sue limitate prestazioni tecniche. Una “strettoia” che soffoca l’economia e lo sviluppo del nostro Paese, da superare senza se e senza ma proprio attraverso il nuovo asse ferroviario. Una nuova tratta capace di soddisfare finalmente gli standard tecnici europei per i treni, sia in termini di sagoma (4 metri allo spigolo), sia di lunghezza dei convogli (750 metri) sia di peso massimo trainabile (2.000 tonnellate) e che permetterà di eliminare quanto avviene sulla linea storica che per le elevate pendenze richiede l’impiego diseconomico di due o tre locomotori. Una “nuova cura del ferro”, per usare un termine caro a un ex ministro, che consentirà per di più un significativo aumento di competitività della modalità ferroviaria rispetto al trasporto tutto-strada.Non realizzare una “sezione chiave” del corridoio Mediterraneo significherebbe solo pregiudicare l’efficacia dell’intero asse prioritario e arrecare un significativo danno allo spirito della rete comune TEN T. È per queste ragioni, incomprensibili solo a chi non voglia capire, che tutte le rappresentanze d’impresa territoriali e nazionali hanno ribadito, da ultimo lo scorso 29 ottobre in occasione dell’ordine del giorno approvato dal Consiglio comunale di Torino, l’importanza di procedere con la realizzazione dell’opera per migliorare l’accessibilità dei territori e, attraverso questa, promuovere lo sviluppo economico. Per l’ Italia è stato calcolato, infatti, che superare il deficit di accessibilità e logistica che ci divide dalla Germania consentirebbe di capitalizzare una crescita di 2 punti percentuali del proprio Prodotto interno lordo, pari a circa 34 miliardi di euro l’anno. Cifre che giustificano abbondantemente gli investimenti per un’opera, attentamente valutata, suddivisa in una sezione francese, in una transfrontaliera e in una sezione italiana, con il costo della sezione transfrontaliera pari a 8,6 miliardi di euro in valuta 2012, rivalutati dal Cipe ad agosto 2017 in 9,6 miliardi, di cui il 40 per cento sostenuto dall’Unione Europea, il 35 per cento dall’Italia e il restante 25 per cento dalla Francia. Per quanto riguarda riguarda invece i costi della tratta nazionale italiana, un processo di profonda ridefinizione del progetto ha permesso di ridurre drasticamente l’investimento, da 4,4 miliardi a circa 1,9 miliardi, superando la bellezza di sette valutazioni socio-economiche. Una “rilettura” dei costi avvenuta, a seguito delle forti contestazioni iniziali del progetto, grazie all’Osservatorio istituito nel 2006 dal governo Berlusconi che in oltre 250 sessioni di lavoro, con più di 400 audizioni, di cui circa 80 internazionali, ha permesso di avere una “nuova” Torino-Lione profondamente diversa da quella che generò le proteste No Tav. Una nuova Tav che oggi non può ragionevolmente non spazzar via ogni dubbio sulla necessità di procedere con i lavori, a meno che le contestazioni sono siano solo di natura politica e figlie di quella cultura del “non fare” destinata a non far viaggiare purtroppo l’Italia lungo le rotaie della ripresa economica e sociale ma a farla miseramente deragliare. Comportamenti (con il continuo richiamo alla “tecnica” dell’analisi dei costi e dei benefici) dietro ai quali si nasconde in realtà soltanto una volontà politica ancora ideologicamente avversa alle grandi opere. Dimenticando (o peggio non comprendendo) che siamo in presenza di un’opera in corso, oggetto di ben quattro accordi internazionali sottoscritti (con tutto quanto ne può conseguire) e che ha la qualifica di “progetto d’interesse comune”, possibile beneficiario, dunque, delle risorse europee. Un’opera, infine, alla quale lavorano attualmente quasi 800 persone, ma che nel picco delle attività si stima conterà 4000 lavoratori diretti ai quali se ne aggiungeranno altrettanti nell’indotto. Ottomila posti di lavoro in totale. Ma in Italia c’è chi a migliaia di persone preferisce regalare un sussidio (magari perché stiano al bar a berlo o a giocarlo al videopoker) contribuendo a costruire un Paese destinato solo a fallire.
Paolo Uggé, vicepresidente di Conftrasporto e Confcommercio