Infrastrutture: le vie della politica sono finite, non resta che sperare in quelle del Signore

Natale è ormai alle porte e l’augurio di milioni d’italiani (o almeno di quelli che ancora hanno la voglia e il coraggio di voler costruire un futuro per se e soprattutto per i propri figli) è che Gesù Bambino possa portare a molti esponenti politici la capacità di comprendere e soprattutto il dono della coerenza rispetto agli impegni assunti con i cittadini. Un dono tardivo, che non potrà cancellare i danni già fin qui fatti (e che purtroppo toccherà pagare a imprese e cittadini) ma che sarebbe comunque il più bello per quella parte dell’Italia che, nonostante tutto, ancora ci crede. L’unico dono che forse potrebbe aiutare moltissimi imprenditori a dimenticare (con l’augurio però che se ne ricordino bene quando saranno chiamati a esprimere il proprio giudizio…) i troppi momenti confusi “regalati” al Paese da una classe dirigente che, in molti casi, dovrebbe solo vergognarsi. Un pollaio potrebbe essere preso a esempio: abbiamo chi cerca di strumentalizzare la questione per un proprio rilancio in politica; rappresentanti di coloro che vogliono regalare all’Italia una fase di decrescita più o meno felice; sostenitori del non fare che non hanno il coraggio di dichiarare la propria indisponibilità a una stasi destinata solo a produrre recessione. Tutte persone alle quali vale la pena ricordare le considerazioni della Banca d’Italia relative al periodo 2007/2014, anni nei quali si è registrata forse la più grande crisi del Paese: aver destinato risorse nel comparto delle costruzioni per oltre 108 miliardi di euro ha significato una crescita del Pil pari a circa il 7%. Materia su cui riflettere per chi annunciava ai cittadini l’inizio di una fase strategica espansiva costruita proprio sulle fondamenta del non fare e che oggi, alla luce dei risultati certo non brillanti di questi primi sei mesi di Governo, dovrebbe avere il coraggio e la coerenza di ammettere la verità: oscillare tra il fare e il non realizzare opere, legando i cantieri ai risultati delle analisi costi benefici, è solo una colossale presa in giro. E (sempre confidando in una nuova capacità di comprendere trovata in dono sotto l’albero) qualche politico dovrebbe ammettere che proseguire sulla strada fin qui imboccata significherebbe disconoscere accordi intergovernativi stipulati nell’arco di 15 anni (a partire dal 2001 fino all’accordo firmato dall’Italia con la Francia per la Tav dell’8 marzo 2016 e alla legge del 5 gennaio 2017 che ha ratificato l’accordo tra i governi dei due Paesi) illustrandone le conseguenze. Il Paese è davvero a conoscenza che non è sufficiente un tratto di penna oppure il risultato di una commissione che studia gli effetti dell’opera per annullare una legge? Si è coscienti che occorre andare in Parlamento e discutere di come si intende cambiare una linea strategica definita a livello comunitario? I dibattiti sono pubblici e se c’è chi pensa di fare il furbo prima o poi verrà scoperto. Del resto non è difficile scoprire che al di là delle delibere del Cipe c’è anche quella del Comitato Cef (Connetting Europe Facilities) che approvando la proposta della Commissione europea ha assegnato alla Torino-Lione 813,7 milioni di euro del costo del progetto. Una montagna di denaro che rischia di dover essere restituita (pagata sempre dai cittadini) alla quale si potrebbero aggiungere, in caso di mancata realizzazione dell’infrastruttura, le richieste di danni che “pesano” molto più di chiacchiere, ideologie e polemiche. Possibile che non comprendano i “decisori politici” che un Paese come l’Italia necessita di certezze e in modo particolare di decisioni rapide? Non resta che sperare in Gesù Bambino (chiedendo perdono per l’irriverente accostamento).

Paolo Uggé, vicepresidente di Conftrasporto e Confcommercio