Perché due macchinisti sui treni? Perché l’Italia è ferma ai tempi delle locomotive a vapore…

“La cura del ferro comincia a concretizzarsi” aveva annunciato pochi giorni fa il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio, intervenendo all’inaugurazione di Expoferroviaria 2017 a Fiera di Milano Rho, sottolineando come “il progetto industriale di ricambio dei mezzi rotabili e di potenziamento dei servizi ferroviari sia partito grazie alle importanti risorse messe in campo che hanno messo Fs nelle condizioni di fare un piano industriale molto ambizioso, e al cambiamento delle regole che hanno contribuito a stimolare la concorrenza, permettendo un mercato più liberalizzato”. Una cura del ferro (quello delle rotaie appunto) importantissima per i passeggeri ma anche per le merci che, ha affermato sempre il ministro, “è una necessità che riguarda la qualità di vita nelle regioni, nelle città nei territori” oltre che la miglior risposta “alla richiesta di  maggior efficienza logistica dei nostri sistemi e di sempre più servizi sostenibili da parte delle  aziende”. Ma la cura del ferro sta davvero iniziando a guarire il “paziente Italia”, ridotto in condizioni gravissime proprio da una rete di infrastrutture lasciata cadere a pezzi per decenni? “La cura del ferro, così come quella dell’acqua, per potenziare il trasporto merci via treno e via nave, sono scelte importanti che vanno nella direzione giusta, ma ci sono ancora diversi “problemi di salute” da risolvere”, hanno replicato al ministro i responsabili dell’ufficio studi di Confcommercio autori dello studio “Analisi e previsioni per il trasporto merci in Italia” presentato a Cernobbio in occasione del terzo Forum di Conftrasporto. Mettendo, nero su bianco, i principali ostacoli sul percorso delle nuove rotaie evidenziati in “aspetti, in particolare, che nonostante la “cura del ferro”, rischiano di continuare a frenare il sistema ferroviario nazionale: le regole di composizione dell’equipaggio di guida dei convogli, che ancora oggi prevedono, nei fatti, due agenti di condotta; i criteri di rilascio dei Certificati di sicurezza; i criteri utilizzati per il calcolo dei pedaggi quando sono coinvolte diverse reti infrastrutturali”. In particolar modo, per quanto riguarda il “problema” del doppio agente di condotta, i responsabili di Confcommercio spiegano che in tema di sicurezza della circolazione ferroviaria “il sistema di segnalamento attuale prevede il macchinista solo, consentendo di superare la prassi risalente all’epoca dei treni a vapore di avere due operatori addetti alla condotta del treno (all’epoca, appunto, il macchinista e il fuochista) perché il treno è tecnicamente in grado di arrestarsi autonomamente in tutte le situazioni di pericolo, così come prevede l’Agenzia per la sicurezza delle ferrovie (Ansf), che nelle sue disposizioni già si è conseguentemente adeguata”. Questo, in parole semplici, significa che “in caso di malore del macchinista, il treno rimane sui binari e si ferma perché i sistemi tecnologici odierni intervengono immediatamente, in maniera autonoma, garantendo un livello di sicurezza difficile da trovarsi nelle altre modalità di trasporto”. Ma, nonostante ciò, a seguito di una serie di denunce “alcune Procure della Repubblica hanno tuttavia sollecitato alcune Aziende sanitarie locali a fornire indicazioni circa l’effettivo rischio generato dalla presenza di un solo conducente a bordo del treno. Sono state, così, evidenziate perplessità sui tempi di soccorso al macchinista solo in caso di malore” col risultato che “nonostante le procedure di Rfi, Rete ferroviaria italiana, e delle Imprese ferroviarie prevedano tempi massimi di soccorso di 30-40 minuti, che si collocano al di sotto dei 60 minuti presi a riferimento in tutto il resto d’Europa, alcune Asl, in assenza di comuni criteri nazionali, hanno ritenuto, in autonomia, tale lasso temporale troppo esteso, bloccando, nei fatti, la condotta dei treni con il macchinista solo”. Un “gap competitivo inaccettabile” secondo Confcommercio e Conftrasporto, che in materia di burocrazia che frena il Paese in ogni aspetto, compreso il trasporto sui binari, denunciano anche il caso “certificati di sicurezza”. Di cosa si tratta? “Quando un’impresa ferroviaria acquisisce un nuovo traffico che interessa una nuova relazione (anche se esce dal precedente perimetro per un solo metro!), deve chiedere l’estensione del proprio certificato di sicurezza all’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie, sostenere i relativi costi e attendere il tempo necessario per il rilascio, che può variare da sei mesi a un anno, con evidenti difficoltà ad incrementare i propri servizi”, si legge nel documento. Senza contare che “Il certificato di sicurezza rilasciato dall’Ansf nel dicembre 2016 a Mercitalia dà facoltà a quest’ultima di utilizzare “l’intera rete gestita da Rfi mentre tutte le altre compagnie entrate nel mercato del trasporto merci a seguito della liberalizzazione, hanno, invece, un certificato di sicurezza parziale, valido soltanto su alcune tratte non avendo potuto supportare nella fase d’ingresso nel mercato gli ingentissimi costi necessari per il conseguimento del certificato sull’intera rete”. Un “significativo vantaggio, retaggio dei precedenti assetti del settore, che finisce con l’alterare le dinamiche concorrenziali tra le imprese, in considerazione degli ingenti costi amministrativi e di formazione del personale necessari nel nostro Paese per l’aggiornamento del Certificato e dei relativi tempi tecnici”. Forse è anche per questo che nel 2016, dopo oltre un quarto di secolo dall’avvio del processo di liberalizzazione, come afferma uno studio dell’Istituto Bruno Leoni, “l’indice di liberalizzazione del mercato ferroviario in Italia, posto pari a 100 quello del paese best performer (la Svezia), nonostante alcune singole buone pratiche, come per esempio nel comparto dell’Alta velocità, si è attestato ad un valore insoddisfacente di 52, registrando, per altro, un declino rispetto al 2015”.