Politica dei trasporti da rifare: fa solo chiudere o fuggire le imprese all’estero

Nell’area euro un’ora di lavoro può costare da 3,8 a 40,3 euro. In Italia 28,3 euro, dunque sopra la media europea. Sempre nel nostro Paese la voce lavoro incide intorno al 30% sui costi dell’impresa. Questi dati dovrebbero indurre il Governo e i sindacati ad aprire una riflessione sulla necessità di intervenire, pena la continua perdita di competitività e il ricorso alla delocalizzazione o al distacco internazionale dei dipendenti. Il ricorso a vere e proprie forme di affitto di personale da parte di società estere che prospettano risparmi annui che oscillano dai 15 ai 25mila euro medi sta incrementando. Quanto grande è il fenomeno? Almeno 26mila automezzi italiani si sono spostati all’estero dal 2008 al 2013 e più di 5000 autoveicoli all’anno sono stati immatricolati oltrefrontiera procurando una perdita media annua per lo Stato di un miliardo di euro. Quali le ragioni? Il 48% delle imprese ha messo sul banco degli imputati i costi di gestione; il 40% la pressione fiscale e il 32% le difficoltà burocratiche. In cinque anni si sono persi così quasi 9 punti di Pil; l’occupazione, su tutta la filiera compreso l’indotto, si è contratta di 197mila posti di lavoro: 15 volte i dipendenti dell’Ilva di Taranto, 90 volte quelli di Alitalia e 360 volte quelli delle acciaierie di Terni. E, ancora, il trasporto merci su strada è diminuito del 35% e le percorrenze autostradali del 14,5%. Tutto questo “vale” 10 miliardi di euro (quelli incassati in meno sull’accisa sui carburanti), 420 milioni di euro per mancati introiti sull’Irap e 1,3 miliardi per la riduzione degli oneri sociali. Scelte diverse e più adeguate avrebbero permesso almeno di contenere il danno, ma da tempo la politica dei trasporti coincide solo col realizzare infrastrutture, continuando a ignorare quanto dimostrato, dati alla mano, dalle associazioni di categoria: e cioè che prima si definisce il quadro d’insieme e poi si realizza quanto necessario per attuarlo.

Paolo Uggé