I numeri sono impietosi. Quelli raccontati nel rapporto “Rilancio delle infrastrutture di trasporto: rischi e opportunità in tempo di crisi” presentato dalla Fondazione Caracciolo – Centro Studi Aci nel corso della seconda giornata della Conferenza del Traffico e della Circolazione sono preoccupanti. Statistiche che raccontano più di mille parole il ritardo infrastrutturale del nostro Paese. In Italia, per esempio, nel periodo 1990-2005 sono stati costruiti solo 350 chilometri di nuove autostrade; in Spagna sono stati 6.739, in Francia 3.977 e in Germania 1.509.
Ma non è finita qui: sulla Sorrentina c’è un cartello “lavori in corso” esposto da più di 27 anni; del tunnel che avrebbe dovuto rendere più scorrevole la statale 145 non si vede l’uscita, anche se dal 1982 sono già stati spesi più di 60 milioni di euro. Sulla Salerno-Reggio Calabria i lavori sono più lunghi delle code e i costi di realizzazione raggiungono cifre impensabili per qualsiasi altro Paese europeo (23 milioni di euro a chilometro). L’Alta Velocità in Italia è costata 32 milioni di euro a chilometro, contro i 10 della Francia e i 9 della Spagna.
Lo studio evidenzia inoltre la necessità di individuare risorse finanziarie per 50 miliardi di euro per il piano di sviluppo infrastrutturale varato dal Cipe, del valore complessivo di 116 miliardi. Il 43 per cento delle opere strategiche per il Paese è infatti ancora senza copertura finanziaria. Attualmente, solo il 3,6 per cento dei lavori previsti nel 2001 è stato completato.
Numeri, dicevamo, che raccontano anche di un Italia triste fanalino di coda in Europa per qualità e capacità del sistema infrastrutturale. Secondo lo studio dell’Aci, il Lussemburgo presenta un livello di dotazione superiore del 141 per cento rispetto al nostro Paese. E poi l’Olanda con +135 per cento, la Germania +104 per cento, Regno Unito +100 per cento, Francia +68 per cento. Emblematico il dato della Spagna che nel 1985 faceva segnare un -32 per cento ma oggi ha colmato il gap e sfoggia un +9 per cento rispetto al Belpaese.
Nel mirino dello studio della Fondazione Caracciolo finisce anche la “politica a strattoni” concentrata sulle singole opere e incapace di una visione d’insieme. Una situazione che ha scoraggiato gli investimenti privati che oggi non riescono a coprire più del 22 per cento del costo complessivo delle opere e costituisce uno dei principali vincoli alla competitività del nostro tessuto produttivo. Una competitività che spesso e volentieri deve fare i conti con il traffico: il 90,5 per cento delle merci in Italia – spiega l’Aci – si distribuisce su gomma (contro il 76,8 per cento in UE) e le carenze infrastrutturali generano traffico e congestione che costano alle imprese 7,5 miliardi. Sulle enormi spese che sostiene il Paese influiscono anche i contenziosi: dal rapporto emerge infatti che in caso di controversie giudiziarie i costi delle opere aumentano del 30 per cento e i tempi di consegna addirittura del 96 per cento.
Tirando le somme, i costi di realizzazione di una nuova strada in Italia variano tra i 10 e gli 80 milioni di euro a chilometro. In Francia, invece, il range è compreso tra i 5 e i 15 milioni. Stesso discorso per l’ammodernamento di una infrastruttura esistente: l’ampliamento della terza corsia di una tratta autostradale costa tra i 5 e i 20 milioni di euro a chilometro contro i 2-4 d’Oltralpe.
“Le criticità che rendono il nostro Paese meno competitivo sono conseguenza del susseguirsi negli anni di diversi disegni programmatici e dei numerosi cambiamenti di strategie e priorità”, ha spiegato il presidente dell’Aci, Enrico Gelpi (nella foto), “che hanno comportato la revisione dei progetti e delle previsioni di spesa, il non rispetto dei tempi e dei costi se non addirittura la mancata realizzazione o ultimazione dei lavori. La recente nomina di commissari straordinari per le grandi opere – che dovranno svolgere un’azione di monitoraggio, impulso e soprattutto di coordinamento rispetto alle amministrazioni ordinarie competenti –
rappresenta l’inizio d’un percorso nuovo e virtuoso, che produrrà benefici sotto molteplici aspetti”.
“Ugualmente apprezzabile – secondo Gelpi – la nuova disciplina del dissenso in sede di Conferenza dei servizi, che nella formula originaria era causa di malfunzionamento dell’istituto. Con l’adozione del principio di maggioranza in alternativa a quello dell’unanimità, e con una tempistica più “stretta”, anche nel caso di dissenso espresso da un’amministrazione deputata alla tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, si potrà guardare con più ottimismo alla possibilità dell’avvio rapido dei progetti. Anche in presenza di queste novità, non è comunque possibile prescindere da una concreta e condivisa attività di pianificazione, programmazione e progettazione degli interventi. Soltanto così il sistema delle infrastrutture potrà veramente essere al servizio delle diversificate esigenze della domanda di mobilità di persone e merci”.
Lo studio della Fondazione Caracciolo dedica un capitolo al rapporto criminalità organizzata-appalti pubblici, rilevando che le infiltrazioni criminali pesano “come macigni sull’efficienza del sistema”. A questo proposito, in una lunga intervista esclusiva concessa alla Fondazione, il Procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso dichiara che, per arginare tale piaga occorre stabilire regole di trasparenza per gli appalti e fissare preventivamente i costi “chiavi in mano” delle opere. Chi sottoscrive il “protocollo” della trasparenza, spiega Grasso, viene inserito nella “White list” delle imprese; è tenuto a utilizzare un unico conto corrente con tutte le entrate e tutte le uscite relative all’appalto (per escludere “gestioni particolari”, “lavoro nero” e “tangenti”) e ha l’obbligo di denunciare le richieste di tangenti e i tentativi di infiltrazione mafiosa. Occorre quindi stabilire il costo vero – non gonfiato o con ribassi – “chiavi in mano” di ogni opera, calcolando anche il profitto di chi lavora, per appalti che possono essere affidati alla responsabilità esclusiva, senza condizionamenti esterni, di un’unica impresa della “White list”. Una proposta che Grasso definisce “rivoluzionaria”, dal momento che “fa saltare gli appalti pubblici, gli intermediari, il finanziamento della politica, della Pubblica Amministrazione e possibilmente anche della mafia”.