Autotrasporto, ecco i numeri
di una crisi sempre più profonda

Poco prima delle vacanze estive, Fai Conftrasporto ha svolto un’indagine sulle aspettative dei nostri imprenditori alla ripresa autunnale intervistando un significativo campione di responsabili di imprese con sede nel nord, nel centro e nel sud del Paese. Il primo (preoccupante) dato emerso  è che il 70 per cento delle persone intervistate ha ammesso di non aver potuto fare investimenti negli ultimi due anni e non pensa di realizzarne in un prossimo futuro. Il secondo dato, ancora più allarmante, è che il 18,5 per cento delle imprese, dislocate in gran parte nel Sud, non riprenderanno l’attività. Chiuderanno definitivamente i battenti, dopo aver tentato inutilmente di fronteggiare la crisi,  mentre un 31,5 per cento dei titolari di imprese intervistati  spera di poter mantenere aperta l’attività anche se teme, entro la fine dell’anno, in assenza di consistenti aiuti, di ritrovarsi nella condizione di non poter proseguire l’attività.

 E, ancora, l’indagine ha rivelato come il  50 per cento delle imprese contattate sia in forte sofferenza di liquidità e abbia sempre meno possibilità di far ricorso al credito. Una situazione difficilissima, addirittura drammatica, capolinea di un travagliatissimo percorso a ostacoli caratterizzato, negli ultimi anni, da corrispettivi di trasporto che non riuscivano neppure a coprire i costi reali. Le cause? Da una parte la diminuzione della velocità commerciale, dall’altra i coefficienti di carico sempre più bassi. Mentre il mercato continuava a chiedere sempre più qualità, più flessibilità, più affidabilità,  nessuno si preoccupava di garantire un adeguato riconoscimento sul piano dei prezzi, destinati, invece, a diminuire. Un fenomeno che riguarda anche le grosse imprese di spedizione e di logistica: prendendo a riferimento il fatturato di quattro tra le principali imprese del settore, che ammonta a circa due miliardi di euro, scopriamo che i bilanci di tutte quattro le società evidenziano perdite per circa 50 milioni di euro. In Italia per far viaggiare un “tir” si spendono al chilometro 1euro e 539 centesimi; in Slovenia 1,202; in Spagna 1,183; 1,043 in Polonia; 1,029 in Ungheria per finire con lo 0,893 della Romania. Le voci che incidono pesantemente e che fanno perdere nettamente il confronto alle nostre imprese, soprattutto con quelle dei Paesi dell’Est, sono senza ombra di dubbio il personale e il gasolio che  rappresentano il 50 per cento circa dei costi di un’impresa. Per dare una cifra  reale un differenziale pari a 30/35mila euro anno. È alla luce di questi dati che bisognerà confrontarsi. Le politiche di intervento decise sempre più a fatica dai Governi che si sono succeduti non riescono a dare una risposta significativa in termini di competitività. Il risultato è che molte aziende sono costrette a delocalizzare o a trasformarsi in utilizzatori di vettori esteri, vivendo sui margini dell’intermediazione. Non intervenire per affrontare nel dovuto modo la situazione appare miope oltre che autolesionista. Le associazioni hanno puntato (purtroppo in questo molto avversate dalle associazioni degli intermediari e della committenza primaria) a una politica che ponesse al centro la qualità dei servizi e la sicurezza come elemento per porre almeno sul piano delle regole tutti sullo stesso livello. Sicuramente se si intervenisse sull’imposizione fiscale e sul costo del lavoro si potrebbero ottenere risposte adeguate. È arrivato il momento (non più rinviabile) per il Governo di portare la questione trasporti in sede comunitaria per poter ottenere spazi di intervento possibili. La strada da percorrere è quella seguita per il naviglio, per il quale è stato possibile ottenere un contratto europeo di lavoro in base al principio che si tratta di personale non stanziale. Perché non porre con la dovuta determinazione l’estensione di tale principio al personale viaggiante su gomma? L’Italia sopporta, rispetto ad altri Paesi europei, il costo dell’attraversamento dell’arco alpino che per ogni direttrice di traffico europea pesa sui nostri prodotti. Invece di condividere le ipotesi di frenare ancor più la mobilità attraverso le Alpi, accettando il confronto su principi come la borsa dei noli o il protocollo trasporti della Convenzione delle Alpi, perché non concordare con tutti coloro che nel Parlamento europeo e nelle Commissioni rappresentano il nostro Paese una azione comune per sostenere la richiesta di deroghe alle norme sugli aiuti di Stato? E  molte altre iniziative si potrebbero mettere in campo, a condizione di possedere la conoscenza, la competenza e la volontà politica indispensabili per raggiungere i traguardi prefissati. Senza una politica dei trasporti gestita come un sistema e parte di un disegno strategico si rischia di destinare risorse per le infrastrutture che non saranno utilizzate dai nostri vettori. Gli investimenti stessi sui porti di accoglienza del Sud, che dovrebbero accogliere le grandi navi porta container, saranno sprecati e l’Italia sarà bypassata o circumnavigata. In questa condizione il confronto con il Governo dovrà soprattutto puntare alle scelte di prospettiva. Per aiutarlo a scegliere è necessario che vi sia una evoluzione nei rapporti tra le stesse associazioni di settore che devono acquisire la consapevolezza che i destini si giocano su altri tavoli sui quali va obbligatoriamente presentato il trasporto nazionale. Altrimenti è preferibile  non sedersi neppure al tavolo delle trattative.