Esiste uno studio interessante del professor Andrea Gilardoni, docente di Economia e gestione di impresa all’Università Bocconi di Milano, che calcola i “costi del non fare”. Sarebbe bene che alcuni nostri uomini di Governo lo conoscessero. Oggi che si sta vergognosamente “giocando” con le parole e con i distinguo per nascondere la voglia di non realizzare nulla, in omaggio probabilmente alla filosofia della decrescita felice, vorrei, avendo per un certo periodo vissuto la stagione che ha portato ad assumere scelte di connettere l’Italia con il resto dell’Europa, formulare alcune puntualizzazioni su un tema così delicato che si fonda proprio sulla volontà del ”non fare”. Superficialità e affermazioni che forniscono immagini distorte rispetto alla realtà abbondano ma il Paese rischia una fase involutiva pesante. Si può dire che su temi come la Tav, l’Ilva, l’Alitalia, la Tap, la sicurezza, risposte concrete ancora non si vedano. Anzi sul provvedimento “Dignità”, a oggi presentato alle Camere, le reazioni di cittadini e degli imprenditori non sono di consenso. Non mi addentro sull’Alitalia dove regnano ancora diversità nelle opinioni della maggioranza ma sulla Tav, e la Tap, infrastrutture legate a impegni internazionali. In questi giorni il Presidente del Consiglio si è trovato di fronte aduna precisa richiesta da parte del presidente Usa Donald Trump che chiede sul gasdotto il rispetto di impegni assunti. L’opera è decisiva per il sistema energetico del Paese. Per quanto riguarda l’Ilva invece quello che non si rivela è che terminate a fine settembre le risorse ancora disponibili, stanziate dal precedente Governo (100 milioni di euro), dal mese successivo i fornitori tutti, ma gli autotrasportatori in particolare, che ricevono i pagamenti a 120 giorni, non avranno più le disponibilità per fare rifornimento di gasolio, senza il quale i mezzi non camminano. Gli automezzi resteranno, dunque, insieme alla merce sui piazzali; il sistema si paralizzerà e l’Ilva si troverà in un circolo vizioso che rischia di sfociare in nuovi disoccupati e definitiva chiusura della produzione. Saranno felici i produttori di acciaio sparsi nel mondo che incrementeranno la propria produzione. Non certo i lavoratori italiani che assistono sgomenti e preoccupati all’evoluzione.
La Tav si inquadra nel tema più generale delle infrastrutture ma anche del sistema produttivo al quale sono strettamente collegate. La produzione industriale, negli ultimi anni, ha raggiunto il valore di 960 miliardi di euro. Oggi si produce per flussi il che assegna un valore determinante alla funzione logistica. Il costo che caratterizza la movimentazione dei prodotti impatta per il 20% circa sul valore della produzione. In altri Paesi europei si attesta su un valore del 6/8%. Il che sta a significare che se l’Italia si allineasse con altri paesi della Comunità il costo della logistica si ridurrebbe di 60 miliardi (il valore di almeno tre Leggi di Stabilità). Le cause derivano dal fatto che il Paese si carica di costi folli: nella distribuzione delle realtà urbane, nell’accesso e l’uscita dai nostri hub logistici (interporti, porti, aeroporti). Se aggiungiamo quelli derivanti dall’attraversamento delle arterie principali del sistema delle autostrade, quali il corridoio tirrenico e adriatico, i collegamenti insulari, l’assenza di una offerta del sistema ferroviario, i transiti per l’attraversamento dell’arco alpino, il quadro che emerge non può che essere preoccupante e indurre ad agire. Solo i divieti che sono stati introdotti al Brennero attestano la criticità del nostro sistema. Un’ora di ritardo genera un danno pari a 200 milioni di euro all’anno al sistema produttivo e 170 per le imprese di autotrasporto. Oggi le merci che transitano per l’arco alpino sono oltre 150 milioni di tonnellate ma con una offerta infrastrutturale che dimensionalmente ne garantisce solo 40 milioni. La tanto criticata legge obiettivo (una scelta di politica dei trasporti, condivisibile o meno, ma frutto di una precisa volontà) era la risposta idonea per rispondere all’esigenza europea constatata agli inizi degli anni 2000 dal commissario ai trasporti Van Miert che ipotizzava la realizzazione delle reti Ten, veri e propri corridoi europei, per rendere competitiva l’economia continentale. In quelle opere prioritarie è inserita la Tav. Dissertare senza aver conoscenza del perché di tali scelte può indurre a errori gravi. Altrettanto è il perdere tempo chiedendo pareri superflui all’Autority. Ho vissuto da sottosegretario ai trasporti quelle vicende e posso sostenere a ragion veduta che la Tav non è un’opera voluta dal Governo italiano bensì dalla Comunità europea che assicura un finanziamento del 50% del costo dell’opera. Il 25% è a carico della Francia, il 25% dell’Italia. Per questo nel caso di sospensione saremo costretti, come per il Ponte sullo Stretto (altra opera decisa a livello europeo parte del corridoio 1) a corrispondere le penali e i danni. I contratti internazionali tra Governi non possono essere disattesi. Sentire le tante critiche sulla dilatazione dei tempi di realizzo e talune superficiali considerazioni rilasciate da persone che non conoscono, fa rabbia e preoccupano. Il nostro Paese rischia l’isolamento e la perdita di tante opportunità che porterebbero sviluppo e occupazione. Sono tuttavia convinto che i ritardi non siano da attribuire, almeno tutti, ai cosiddetti movimenti spontanei, (No Tav) la colpa, nella maggior parte dei casi, ritengo possa essere meglio ricercata all’interno dello Stato. Forse oggi ne viviamo un esempio.
Paolo Uggè già Sottosegretario di Stato ai trasporti