Una montagna di scartoffie per poter fare un trasporto. Così la burocrazia uccide chi lavora

I Tir una volta servivano per trasportare le merci. Avanti di questo passo il rischio è che almeno una parte del rimorchio debba essere destinata a trasportare le scartoffie che una burocrazia sempre più becera e insopportabile impone come “sovraccarico” di lavoro a chi si occupa di trasporti. Guardare, per credere, l’impressionante pila di documenti che il titolare di un’impresa si è visto costretto a predisporre (e conservare per esibire in caso di controlli) per effettuare una serie di trasporti. O meglio, di trasporti eccezionali, attività già complessa di per sé, ma che dopo il crollo del cavalcavia di Annone Brianza, in provincia di Lecco (dove a fine ottobre scorso la struttura ha ceduto di colpo mentre transitava un Tir carico di bobine uccidendo una persona e ferendone sei) è diventato quasi impossibile. Non certo per colpa degli operatori del settore ma della macchina burocratica che, non contenta di rappresentare un cancro per l’economia e lo sviluppo del Paese, ha deciso di fermarsi. Provocando un’autentica metastasi. 

Roba, che insegnano i medici, uccide. In questo caso decine, centinaia di imprese di lavoro. Perché si è fermata (o meglio, perché ha fermato l’attività altrui…) la macchina burocratica? Perché in caso di una nuova disgrazia chi è quel funzionario pubblico che si assume la responsabilità di autorizzare un transito eccezionale con la consapevolezza che, in caso di una nuova disgrazia, per lui si spalancherebbero le porte del tribunale? Nessuno. A meno che dallo Stato non arrivino indicazioni precise su come comportarsi. Cosa che, a cinque mesi dalla tragedia di Annone, e nonostante un altro drammatico crollo in autostrada, vicino ad Ancona, costato la vita a due persone, non è assolutamente avvenuto. E così il trasporto eccezionale continua a viaggiare nella demenzialità più totale, con imprese che per ottenere un nulla osta devono comunicare il percorso che intendono fare e poi accendere un cero a San Cristoforo (il santo protettore dei camionisti). Già, perché ipotizzando che quel carico eccezionale debba attraversare qualche provincia o addirittura regione, percorrendo strade che possono attraversare comodamente cento o più Comuni la norma prevede che ogni amministrazione provinciale spedisca via e mail, con posta certificata, la famigerata Pec, la richiesta a tutti i 100 e passa i Comuni. E che questi rispondano dando l’ok. Sperando che non ce ne sia neppure uno che neghi il permesso, caso in cui l’imprenditore del trasporto dovrebbe ripartire dal via, come nel gioco del Monopoli, variando il percorso e sperando che l’amministrazione del nuovo Comune attraversato accenda il semaforo verde. Peccato però che questo non sia un gioco da tavolo, ma un lavoro difficile e faticoso anche senza che qualcuno ci metta i bastoni fra le ruote. Una follia che, tradotta in numeri, può significare settimane se non mesi d’attesa per chiudere una pratica. Una follia come veder un plico di fogli alto 16 centimetri e mezzo da compilare per rilasciare un’autorizzazione per una motrice e cinque rimorchi agganciati. Una follia che appare ancora più macroscopica se si pensa che in altri Paesi d’Europa c’è un solo ente a cui rivolgersi per questo tipo di pratiche, definite per di più in pochi giorni. O se si pensa che oltre confine ci sono Paesi che, molto più intelligentemente, rilasciano l’autorizzazione all’impresa di autotrasporto e non al singolo Tir. Basterebbe copiare da chi ha saputo far molto meglio di noi per risolvere il problema, ma nessuno fra coloro che sono stati scelti per guidare il Paese sembra averci pensato. O forse ci ha pensato ma, semplificando il tutto, non saprebbe cosa far fare alla macchina della burocrazia che invece va tenuta sempre accesa, perché sono loro a votare chi la mantiene in vita?